In inglese o childless o childfree (ma è sempre così netta la separazione fra non averli voluti e non averli avuti, i figli?).
In italiano donne senza figli: tre parole cucite insieme che non dicono nulla sulle scelte delle donne. Un’espressione lunga, troppo lunga, impersonale come la sentenza che chiude un procedimento burocratico. Una definizione opaca, omologante, asettica, prossima alla freddezza dei certificati di famiglia.
In sardo invece lunàdigas.
Questa la parola scelta da Nicoletta Nesler e Marilisa Piga per il docufilm pionieristico del 2016 e per un progetto multimediale che, dal 2008 ad oggi, è divenuto sempre più articolato e composito, investigando con delicatezza, autoironia e nessun giudizio o pregiudizio il variegato panorama delle donne senza figli (donne comuni, ma anche donne famose come Veronica Pivetti, Lidia Menapace, Margherita Hack, Lea Melandri e molte altre).
Ogni mese sono pubblicate sul sito Lunadigas.com, nell’Archivio Vivo, le voci di donne (ma ormai anche di uomini, alcuni famosi come Moni Ovadia o Erri De Luca, altri “splendidi sconosciuti”) che hanno qualcosa da dire sulla libertà riproduttiva, sulle categorie tutt’altro che monolitiche e immobili di padre, madre, figlio, figlia, famiglia, istinto materno e paterno, genitorialità, cura, lavoro, parto, adozione, eredità, orologio biologico, vecchiaia…
Queste testimonianze audiovisive sono state raccolte secondo gli standard archivistici tipici di una catalogazione professionale, tramite il partner Regesta.exe e il software open source xDams: in tal modo possono essere interrogate con lemmi che consentono di esplorare l’archivio attraverso ricerche sia semplici sia avanzate. Ed è proprio questa la straordinaria eredità che le lunàdigas vogliono lasciare, aprendo la strada a una nuova visione, che è insieme intima e privata, sociale e politica, sul fare o non fare figli.
Sul sito sono raccolte anche recensioni di libri sui temi della maternità/non maternità e sono presenti mostre virtuali di artistə che riflettono sul loro rapporto con le madri, i padri, le genealogie biologiche e simboliche: artistə che spalancano le finestre del loro immaginario facendoci provare vertigini nuove sulle nozioni di casa, identità, infanzia, osservate da prospettive impreviste e con sintesi audaci, come solo l’arte visuale riesce a fare… Non mancano incontri con associazioni amiche, progetti di sensibilizzazione in scuole e università… E ancora: ogni giorno compaiono post, con riflessioni ed esperienze di vita, su una pagina Facebook seguita da più di 10.000 followers, una comunità eterogenea e plurale che proprio nella parola lunàdigas è riuscita a riconoscersi, tanto che vi partecipano persino donne madri, che però vogliono vivere la loro maternità fuori da logori schemi.
E allora non ci sono dubbi: il termine lunàdigas ci parla di una nuova alleanza tra donne a prescindere dai figli e ha in sé una straordinaria forza inclusiva, dovuta al suo sottrarsi alle logiche binarie delle definizioni affermative o privative (con figli o senza figli) e dei giudizi di valore (positivi o negativi). Lunàdigas scavalca stereotipi, sensi di colpa e luoghi comuni. Una parola leggermente straniante e liberatoria, proprio perché ci porta in un altrove antropologico: la parola lunàdigas viene dalla lingua sarda ed è usata dai pastori per indicare le pecore che in certe stagioni non si riproducono, anche quando non sono sterili.
Mario Puddu, autore del Ditzionàriu de sa limba e de sa cultura sarda (Condaghes edizioni 2015) dà di questo termine delle interpretazioni molto interessanti:
Si narat de una femina o de animale chi non faet fizos, chi no imprinzat (nau de animale finzas candu no faet fedu dogni annu); si narat finzas de cosas (terra, mata) chi non sempere batint frutu; nau finzas de su cumportamentu, de sa manera de faere chi est a lunas, a tempos, a bortas de una mota, a bortas de un’atera.
[si dice di una donna o di un animale che non resta gravida – detto di animale che non partorisce ad ogni stagione – si usa anche per le cose, la terra e gli alberi che non sempre danno frutto; detto perfino del comportamento, del modo di fare ‘lunatico’ secondo l’umore a volte in un modo, a volte in un altro]
Non a caso da molti anni le documentariste Marilisa Piga e Nicoletta Nesler, mentre approfondiscono questo tema di respiro internazionale (con indagini tra donne di tutti i continenti, destinate a un pubblico non solo italiano, perché le testimonianze sono trascritte, editate, tradotte, sottotitolate in italiano e in inglese), lo collegano, tutte le volte che è possibile, al recupero di memorie fragili o marginali, con una particolare attenzione anche alle tradizioni locali e rurali della Sardegna (dai mestieri in via di estinzione al patrimonio storico-archeologico).
Lunàdigas, dunque, è una parola che mentre lancia una sfida al futuro ci riconduce a un passato lontano, quello della cultura orale della Sardegna: un orizzonte arcaico come quello di tutte le civiltà contadine e pastorali di un tempo, segnate dai ritmi stagionali spesso imprevedibili, misteriosi, altalenanti, molto diversi dalle logiche produttivistiche in cui domanda e offerta, entrate e uscite, devono necessariamente incontrarsi, e i bilanci preventivi e quelli consuntivi devono il più possibile coincidere.
Così lunàdigas è una parola che suscita un’immediata empatia: non dice troppo (come childless o childfree) e nemmeno troppo poco (donne senza figli). Ha quel pizzico di mistero che ci proietta in un mondo lontano, grazie all’etimologia latina, dall’aggettivo lunaticus (lunatico, epilettico, temporaneamente impazzito, accecato a intervalli), con saldi legami etimologici e culturali con la lingua greca: il verbo σεληνιάζομαι (da seléne, luna) è usato, ad esempio, negli autori classici e nelle Sacre Scritture (Mat. 17,14-15) in riferimento al male sacro dell’epilessia, che si manifesta all’improvviso senza un evidente nesso logico di “causa ed effetto”, e così appare attribuibile solo all’influenza delle fasi lunari.
Le varietà di lingua sarda oggi dispongono di una definizione specifica per l’epilessia (su malecaducu) che non ha a che fare con il lemma lunàdiga collegabile invece all’italiano attraverso la derivazione diretta dalla radice latina (con la lenizione delle consonanti /k/ > /ɣ/ e /t/ > /ð/: lunàdiga /luˈnaðiɣa). Vocaboli ed espressioni con forme e significati simili sono documentati in altre regioni d’Italia (per esempio nelle lingue ladine si trova la definizione da la lüna).
C’è un altro aspetto interessante e degno di futuri approfondimenti: il lemma lunàdiga (plurale lunàdigas) è attestato non solo nei vocabolari sardi generici ma anche in quelli di varietà specifiche; è però sempre riferito a femmine (pecore, ma anche cavalle, mucche, bestie generiche e donne). Il termine usato per i maschi, invece, è diverso e varia secondo la zona. Sembra quasi che la parola femminile sia passepartout avendo una diffusione più estesa, su scala regionale: e questo ci fa capire molto della presunta stravaganza delle femmine che non si riproducono, sottoposte dappertutto e più degli uomini a una speciale sorveglianza, a una censura, perché loro (non i maschi) hanno un utero pigro e vuoto.
Eppure questa parola che sa di antico sfugge all’omologazione forzata della nostra società globale. Proprio perché può essere riferita alle bestie e alle piante che non danno frutto, la parola lunàdigas ci riconcilia non solo con le culle vuote, ma anche con le carestie e i raccolti meno abbondanti, le nidiate scarne, le stalle ora gremite di animali ora semivuote, oppure deserte del tutto. In tempi di crisi ecologiche ed economiche, ci ricorda che nella natura non tutto è profitto, non tutto è prodotto, non tutto è tabella di marcia prevedibile, non tutto è produzione programmata e standardizzata (che finisce col violare, sfinire e impoverire la natura stessa).
Per millenni la vita è stata questo: non solo parto, non solo vendemmia, non solo mietitura, non solo raccolto, ma anche sterilità, siccità, scarsità alternata ai cicli fortunati dell’abbondanza, come nel mito di Demetra e Persefone, e non c’è niente da chiedere, non c’è niente da giustificare: la natura non spiegava perché era meno madre dell’anno precedente, perché era più o meno fertile, più o meno feconda e generosa.
Perché se la natura non è una macchina, men che meno una macchina riproduttiva, nessuna donna deve esserlo.
E perché le lunàdigas, in tutte le culture del mondo, ci sono state, ci sono e ci saranno sempre.